Il titolo del diario inedito di Sigfrido Bartolini, Una Disperata felicità, racchiude nell’apparente ossimoro la cifra di una personalità d’artista che le pagine autobiografiche svelano con il fluire degli anni, restituendo un’immagine forse sorprendente per chi ebbe a conoscere di lui il sostantivo del sintagma senza talvolta neppure sospettare non solo quanto fosse determinante l’aggettivo che lo precede, ma addirittura la sua esistenza. Comprese fra questi due poli le pagine del Diario raccontano chi è stato Bartolini, la sua cifra di uomo e di artista, la sua poetica costantemente ricercata inseguita e realizzata nella continua tensione fra inadeguatezza e appagamento, fra sperimentazione e mestiere; il suo accanimento a vivere una vita operosa, così intensamente operosa da rendere fatalmente parziale e insoddisfacente ogni tentativo di sintesi si cerchi di farne. La biografia di Bartolini racconta di un ragazzo precocemente attratto da pennelli e colori, dalla suggestione della bellezza della natura, che la semplicità e gli scarsi mezzi della famiglia avrebbero forse avviato ad un lavoro in fabbrica, se la lungimiranza di un maestro elementare, Vittorio Amadori, non avesse riconosciuto una intelligenza vivace desiderosa di apprendere, capace di elaborare quel che andava imparando, nel bimbetto dall’aria compunta e riservata, quel bimbo in calzoncini corti, camicina bianca, i capelli ordinatamente pettinati con la scriminatura da un lato che ci è raccontato dal bel dipinto, Sigfrido Bartolini fanciullo(1945) di Umberto Mariotti. Così, colui che in famiglia veniva affettuosamente chiamato Angiolino (usando, per il più piccolo di tre fratelli, il secondo dei nomi impostigli alla nascita, Sigfrido Angiolo Adolfo) iniziò la sua trasformazione in Sigfrido (nomen est omen): gli studi presso la scuola d’arte di Pistoia dove venne iscritto nel 1944 o 45, integrati da letture inizialmente onnivore, poi sempre più sistematiche seguendo i consigli di Soffici che incontrerà intorno al 1949 grazie al pittore Pietro Bugiani, suo docente alla scuola d’arte, che lo porterà a Poggio a Caiano insegnandogli un itinerario che Bartolini percorrerà regolarmente con tutti i mezzi a disposizione, dalla corriera alla bicicletta, fino alla morte dell’amico avvenuta nel 1964. Poi le prime esposizioni: nel ’47 a quindici anni è il più giovane pittore in una mostra organizzata dal Comune di Pistoia e la sua opera in quell’occasione riceve un premio. Ma il percorso verso l’appropriazione del nome wagneriano costringe Angiolino a tener ripiegate le ali che vorrebbero spiegarsi verso la poesia e l’arte, nella opprimente custodia di un lavoro “alimentare” che gli lascia libere, oltre alle feste comandate, solo le ore notturne: «Passo i miei giorni prigioniero del mio pane! Di questo pane che così poco mi ciba», annota l’11 gennaio 1955; da qualche mese ha intrapreso il lavoro di incisione di un grande legno, 100x78 cm, la “xilografia grande” (Campagna d’Autunno. Valdibure) per concludere la quale impiegherà assai più del tempo che gli sarebbe necessario, costretto dall’orologio a «posare le sgorbie», per dedicare almeno qualche ora al riposo notturno. Quel pane di poco nutrimento glielo fornisce una ditta di imbianchini-decoratori legata ad un negozio artigiano ch’egli dirigerà fino al momento di partire militare nel 1956, ma sulla scacchiera della vita l’eterogenesi dei fini vuole che quel lavoro “alimentare”, se toglie tempo all’arte, lo porti, al seguito degli operai, per canoniche, chiese o case padronali –dove occorresse ritinteggiare un intonaco, o decorare una cappella, o porre rimedio ai guasti prodotti dal tempo su vecchi arredi sacri o profani– in giro per la bella campagna pistoiese. Borgo a Buggiano, Bacchereto, Lanciole Spignana, Pescia, Sarripoli, Bussotto, Empoli, Gello, Massa Cozzile, Tobbiana sono alcuni dei luoghi che il giovane Bartolini percorre in questi anni al seguito degli operai completando una topografia dell’anima che va costruendo attraverso ripetute e frequenti girate in bicicletta per la campagna con i più anziani Pietro Bugiani, Renzo Agostini, o Umberto Mariotti, già suoi insegnanti alla scuola d’arte, e i coetanei Stelio Rossi, e Valerio Gelli, alla ricerca di soggetti da dipingere “dal vero” o semplicemente di salutari immersioni nella quieta bellezza della natura; e allora ecco che ricorrono i nomi di S.Alessio, Germinaia, Cireglio, S.Quirico, Bonelle, Ponte Stella, Castel de’Gai.. Fino dalle prime pagine, il diario è segnato da un inesausto scambio fra il giovane artista e la natura: entrambi partecipano di una medesima identità toscana, di una stessa cifra estetica che permette continue agnizioni. La campagna toscana, e inizialmente quella pistoiese, è la dimora e il simbolo della bellezza, è il paesaggio degli archetipi, formali ed esistenziali, strutturali e mitici sui quali si forma la sua personalità d’uomo e d’artista; ed è proprio seguendo il filo dell’evoluzione del suo rapporto con il mondo naturale che lo circonda, per gran parte rappresentato nella “sua” campagna, che è possibile rintracciare, grazie alle pagine del diario, il percorso estetico ed esistenziale di Bartolini che ovviamente si specchia immediatamente nella sua opera pittorica, ma contemporaneamente si sostanzia continuamente nelle attività (talvolta collaterali o addirittura apparentemente estranee alla creazione artistica propriamente detta) alle quali si dedica con una acribia, dedizione e passione tali da rendere ciascuna esperienza intrapresa e/o prodotta parte integrante della sua personalità d’artista. Le biografie di Bartolini dovendo tracciare di lui un sintetico ritratto che esemplifichi la sua attività sono costrette a inanellare una serie di sostantivi – pittore, incisore, scrittore– cercando di attribuire a ciascuno il più complesso valore semantico: pittore in senso proprio, per esempio, non esaurisce le diverse tecniche alle quali egli si è dedicato: dal monotipo, all’affresco, all’acquerello, alla pittura a olio o a quella della luce (come vengono definite le vetrate istoriate della tradizione medioevale). Incisore deve riferirsi alla sua eccezionale (per quantità e risultati conseguiti in una tecnica particolarmente complessa e poco praticata nel secondo ‘900) attività di xilografo , ma anche di acquafortista e litografo. Scrittore allude alla scrittura originale di libri come Chiesa di Cristo & altri generi (1967) o Lettere di San Bernardino da Siena a un quotidiano (1969) e a quella apparentemente “servile” di critico d’arte o di polemista, o ancora a quella dello studioso dell’arte grafica di alcuni grandi artisti del ‘900: Soffici, Sironi, Rosai, Lega, Cremona, ma anche valorizzatore di talenti artistici perduti nelle pieghe della storia della piccola provincia pistoiese si pensi a Stanghellini e Innocenti . Si comprende perciò che il diario di Bartolini, zibaldone di pensieri, opere e giorni, sia un monstrum di circa 1900 pagine manoscritte su 22 quaderni a righe formato A4 impossibile da circoscrivere e rappresentare, per quanto sinteticamente, nel breve spazio di un saggio; nello stesso modo la sua opera dovrà attendere il tempo di studi approfonditi e multidisciplinari per essere inquadrata esaustivamente. Di conseguenza le poche pagine di questo mio saggio vogliono essere solo un primo approccio, un’ipotesi di lavoro fatalmente parziale, un assaggio che nella ricerca della sintesi si avvale di un privilegio, non necessariamente agevolante l’analisi e la comprensione, magari potenzialmente fuorviante: Sigfrido Bartolini era mio padre .

UNA DISPERATA FELICITA'. IL DIARIO LE OPERE I GIORNI

BARTOLINI S
2010-01-01

Abstract

Il titolo del diario inedito di Sigfrido Bartolini, Una Disperata felicità, racchiude nell’apparente ossimoro la cifra di una personalità d’artista che le pagine autobiografiche svelano con il fluire degli anni, restituendo un’immagine forse sorprendente per chi ebbe a conoscere di lui il sostantivo del sintagma senza talvolta neppure sospettare non solo quanto fosse determinante l’aggettivo che lo precede, ma addirittura la sua esistenza. Comprese fra questi due poli le pagine del Diario raccontano chi è stato Bartolini, la sua cifra di uomo e di artista, la sua poetica costantemente ricercata inseguita e realizzata nella continua tensione fra inadeguatezza e appagamento, fra sperimentazione e mestiere; il suo accanimento a vivere una vita operosa, così intensamente operosa da rendere fatalmente parziale e insoddisfacente ogni tentativo di sintesi si cerchi di farne. La biografia di Bartolini racconta di un ragazzo precocemente attratto da pennelli e colori, dalla suggestione della bellezza della natura, che la semplicità e gli scarsi mezzi della famiglia avrebbero forse avviato ad un lavoro in fabbrica, se la lungimiranza di un maestro elementare, Vittorio Amadori, non avesse riconosciuto una intelligenza vivace desiderosa di apprendere, capace di elaborare quel che andava imparando, nel bimbetto dall’aria compunta e riservata, quel bimbo in calzoncini corti, camicina bianca, i capelli ordinatamente pettinati con la scriminatura da un lato che ci è raccontato dal bel dipinto, Sigfrido Bartolini fanciullo(1945) di Umberto Mariotti. Così, colui che in famiglia veniva affettuosamente chiamato Angiolino (usando, per il più piccolo di tre fratelli, il secondo dei nomi impostigli alla nascita, Sigfrido Angiolo Adolfo) iniziò la sua trasformazione in Sigfrido (nomen est omen): gli studi presso la scuola d’arte di Pistoia dove venne iscritto nel 1944 o 45, integrati da letture inizialmente onnivore, poi sempre più sistematiche seguendo i consigli di Soffici che incontrerà intorno al 1949 grazie al pittore Pietro Bugiani, suo docente alla scuola d’arte, che lo porterà a Poggio a Caiano insegnandogli un itinerario che Bartolini percorrerà regolarmente con tutti i mezzi a disposizione, dalla corriera alla bicicletta, fino alla morte dell’amico avvenuta nel 1964. Poi le prime esposizioni: nel ’47 a quindici anni è il più giovane pittore in una mostra organizzata dal Comune di Pistoia e la sua opera in quell’occasione riceve un premio. Ma il percorso verso l’appropriazione del nome wagneriano costringe Angiolino a tener ripiegate le ali che vorrebbero spiegarsi verso la poesia e l’arte, nella opprimente custodia di un lavoro “alimentare” che gli lascia libere, oltre alle feste comandate, solo le ore notturne: «Passo i miei giorni prigioniero del mio pane! Di questo pane che così poco mi ciba», annota l’11 gennaio 1955; da qualche mese ha intrapreso il lavoro di incisione di un grande legno, 100x78 cm, la “xilografia grande” (Campagna d’Autunno. Valdibure) per concludere la quale impiegherà assai più del tempo che gli sarebbe necessario, costretto dall’orologio a «posare le sgorbie», per dedicare almeno qualche ora al riposo notturno. Quel pane di poco nutrimento glielo fornisce una ditta di imbianchini-decoratori legata ad un negozio artigiano ch’egli dirigerà fino al momento di partire militare nel 1956, ma sulla scacchiera della vita l’eterogenesi dei fini vuole che quel lavoro “alimentare”, se toglie tempo all’arte, lo porti, al seguito degli operai, per canoniche, chiese o case padronali –dove occorresse ritinteggiare un intonaco, o decorare una cappella, o porre rimedio ai guasti prodotti dal tempo su vecchi arredi sacri o profani– in giro per la bella campagna pistoiese. Borgo a Buggiano, Bacchereto, Lanciole Spignana, Pescia, Sarripoli, Bussotto, Empoli, Gello, Massa Cozzile, Tobbiana sono alcuni dei luoghi che il giovane Bartolini percorre in questi anni al seguito degli operai completando una topografia dell’anima che va costruendo attraverso ripetute e frequenti girate in bicicletta per la campagna con i più anziani Pietro Bugiani, Renzo Agostini, o Umberto Mariotti, già suoi insegnanti alla scuola d’arte, e i coetanei Stelio Rossi, e Valerio Gelli, alla ricerca di soggetti da dipingere “dal vero” o semplicemente di salutari immersioni nella quieta bellezza della natura; e allora ecco che ricorrono i nomi di S.Alessio, Germinaia, Cireglio, S.Quirico, Bonelle, Ponte Stella, Castel de’Gai.. Fino dalle prime pagine, il diario è segnato da un inesausto scambio fra il giovane artista e la natura: entrambi partecipano di una medesima identità toscana, di una stessa cifra estetica che permette continue agnizioni. La campagna toscana, e inizialmente quella pistoiese, è la dimora e il simbolo della bellezza, è il paesaggio degli archetipi, formali ed esistenziali, strutturali e mitici sui quali si forma la sua personalità d’uomo e d’artista; ed è proprio seguendo il filo dell’evoluzione del suo rapporto con il mondo naturale che lo circonda, per gran parte rappresentato nella “sua” campagna, che è possibile rintracciare, grazie alle pagine del diario, il percorso estetico ed esistenziale di Bartolini che ovviamente si specchia immediatamente nella sua opera pittorica, ma contemporaneamente si sostanzia continuamente nelle attività (talvolta collaterali o addirittura apparentemente estranee alla creazione artistica propriamente detta) alle quali si dedica con una acribia, dedizione e passione tali da rendere ciascuna esperienza intrapresa e/o prodotta parte integrante della sua personalità d’artista. Le biografie di Bartolini dovendo tracciare di lui un sintetico ritratto che esemplifichi la sua attività sono costrette a inanellare una serie di sostantivi – pittore, incisore, scrittore– cercando di attribuire a ciascuno il più complesso valore semantico: pittore in senso proprio, per esempio, non esaurisce le diverse tecniche alle quali egli si è dedicato: dal monotipo, all’affresco, all’acquerello, alla pittura a olio o a quella della luce (come vengono definite le vetrate istoriate della tradizione medioevale). Incisore deve riferirsi alla sua eccezionale (per quantità e risultati conseguiti in una tecnica particolarmente complessa e poco praticata nel secondo ‘900) attività di xilografo , ma anche di acquafortista e litografo. Scrittore allude alla scrittura originale di libri come Chiesa di Cristo & altri generi (1967) o Lettere di San Bernardino da Siena a un quotidiano (1969) e a quella apparentemente “servile” di critico d’arte o di polemista, o ancora a quella dello studioso dell’arte grafica di alcuni grandi artisti del ‘900: Soffici, Sironi, Rosai, Lega, Cremona, ma anche valorizzatore di talenti artistici perduti nelle pieghe della storia della piccola provincia pistoiese si pensi a Stanghellini e Innocenti . Si comprende perciò che il diario di Bartolini, zibaldone di pensieri, opere e giorni, sia un monstrum di circa 1900 pagine manoscritte su 22 quaderni a righe formato A4 impossibile da circoscrivere e rappresentare, per quanto sinteticamente, nel breve spazio di un saggio; nello stesso modo la sua opera dovrà attendere il tempo di studi approfonditi e multidisciplinari per essere inquadrata esaustivamente. Di conseguenza le poche pagine di questo mio saggio vogliono essere solo un primo approccio, un’ipotesi di lavoro fatalmente parziale, un assaggio che nella ricerca della sintesi si avvale di un privilegio, non necessariamente agevolante l’analisi e la comprensione, magari potenzialmente fuorviante: Sigfrido Bartolini era mio padre .
2010
978-88-596-0874-5
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