Un’inutile strage come disse Benedetto XV o il grande lavacro della modernità? La Grande Guerra a cento anni di distanza continua a dividere gli studiosi. Questo libro tenta una risposta attraversando i memoriali, diari e romanzi di letterati, intellettuali e artisti europei che parteciparono in massa al primo conflitto mondiale su ogni fronte. L’entusiasmo della partenza fu la cifra comune seppure con motivazioni diverse, e altrettanto comune fu lo sbalordito orrore nel ritrovarsi in una guerra dei materiali che toglieva ai soldati ogni possibilità di protagonismo eroico e uccideva, oltre ad un numero sproporzionato di uomini, l’ideale antico del campo di battaglia come agone dove si prova la virtù guerriera dell’uomo. Ideale che aveva spinto tanti giovani pieni di entusiasmo a partire volontari in cerca di gloria. La diabolica alchimia di guerra di posizione e di macchine provoca negli scrittori (qui assunti come testimoni della storia nel suo farsi) l’agnizione drammatica della vera cifra della modernità e la sua imprevista contraddizione nel momento in cui essa passa dal piano estetico-teorico a quello della pratica bellica. Quella modernità – cantata e invocata dalle avanguardie culturali, futurismo italiano, espressionismo tedesco, cubismo francese, che significava movimento, energia esplosiva, festa di azione contro l’immobilismo, la noia, la monotona stabilità della cultura ottocentesca (il paradosso è stridente se si pensa al futuro status nelle trincee) – si rivelava alla prova dei fatti un contrappasso drammatico. È una la modernità crudele e inattesa che sembra sfuggire dalle mani del suo creatore per vivere di vita propria, esercitare una volontà che l’uomo non sa e non può contrastare, anche se si illude di dominarla utilizzandola per quelli che ritiene essere i propri scopi (vincere la battaglia o la guerra mettendo in campo più materiali – ferro, fuoco, acciaio– del nemico), ma finisce per esserne dominato e vittima. Questo è forse il nodo ideologico più complesso dalla Grande Guerra, l’aporia più dolorosa poiché quell’ansia di modernità finisce per coincidere con la strage di uomini. È sostanzialmente il fallimento degli intellettuali che non hanno previsto quale sarebbe stato il risultato della emulsione fra i mezzi offerti dalla modernità e l’uso che l’uomo ne avrebbe potuto fare (e in effetti ne ha fatto) e hanno scoperchiato un novello vaso di Pandora. La dolente coscienza di questo fallimento provoca la necessità di trasformare una sconfitta “culturale”, intellettuale, in una esperienza da epicizzare per ribaltare il senso della catastrofe, per operare un capovolgimento positivo che raccontando la guerra recuperi l’antico canto omerico degli eroi e delle battaglie. La guerra in ogni lingua e contesto letterario così diventa racconto di esperienza comune. Il romanzo, il diario, il memoriale finiscono per rappresentare l’altare della memoria necessaria perché come scrive Drieu la Rochelle: «L’idea dell’immortalità è nata dalla mente di chi ricorda, di chi è incapace di dimenticare. I morti passeggiano belli e solenni nel cervello delle madri e degli amici. Sono i loro Campi Elisi.»
L'epica della Grande Guerra
Bartolini S
2015-01-01
Abstract
Un’inutile strage come disse Benedetto XV o il grande lavacro della modernità? La Grande Guerra a cento anni di distanza continua a dividere gli studiosi. Questo libro tenta una risposta attraversando i memoriali, diari e romanzi di letterati, intellettuali e artisti europei che parteciparono in massa al primo conflitto mondiale su ogni fronte. L’entusiasmo della partenza fu la cifra comune seppure con motivazioni diverse, e altrettanto comune fu lo sbalordito orrore nel ritrovarsi in una guerra dei materiali che toglieva ai soldati ogni possibilità di protagonismo eroico e uccideva, oltre ad un numero sproporzionato di uomini, l’ideale antico del campo di battaglia come agone dove si prova la virtù guerriera dell’uomo. Ideale che aveva spinto tanti giovani pieni di entusiasmo a partire volontari in cerca di gloria. La diabolica alchimia di guerra di posizione e di macchine provoca negli scrittori (qui assunti come testimoni della storia nel suo farsi) l’agnizione drammatica della vera cifra della modernità e la sua imprevista contraddizione nel momento in cui essa passa dal piano estetico-teorico a quello della pratica bellica. Quella modernità – cantata e invocata dalle avanguardie culturali, futurismo italiano, espressionismo tedesco, cubismo francese, che significava movimento, energia esplosiva, festa di azione contro l’immobilismo, la noia, la monotona stabilità della cultura ottocentesca (il paradosso è stridente se si pensa al futuro status nelle trincee) – si rivelava alla prova dei fatti un contrappasso drammatico. È una la modernità crudele e inattesa che sembra sfuggire dalle mani del suo creatore per vivere di vita propria, esercitare una volontà che l’uomo non sa e non può contrastare, anche se si illude di dominarla utilizzandola per quelli che ritiene essere i propri scopi (vincere la battaglia o la guerra mettendo in campo più materiali – ferro, fuoco, acciaio– del nemico), ma finisce per esserne dominato e vittima. Questo è forse il nodo ideologico più complesso dalla Grande Guerra, l’aporia più dolorosa poiché quell’ansia di modernità finisce per coincidere con la strage di uomini. È sostanzialmente il fallimento degli intellettuali che non hanno previsto quale sarebbe stato il risultato della emulsione fra i mezzi offerti dalla modernità e l’uso che l’uomo ne avrebbe potuto fare (e in effetti ne ha fatto) e hanno scoperchiato un novello vaso di Pandora. La dolente coscienza di questo fallimento provoca la necessità di trasformare una sconfitta “culturale”, intellettuale, in una esperienza da epicizzare per ribaltare il senso della catastrofe, per operare un capovolgimento positivo che raccontando la guerra recuperi l’antico canto omerico degli eroi e delle battaglie. La guerra in ogni lingua e contesto letterario così diventa racconto di esperienza comune. Il romanzo, il diario, il memoriale finiscono per rappresentare l’altare della memoria necessaria perché come scrive Drieu la Rochelle: «L’idea dell’immortalità è nata dalla mente di chi ricorda, di chi è incapace di dimenticare. I morti passeggiano belli e solenni nel cervello delle madri e degli amici. Sono i loro Campi Elisi.»I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.