Per decenni, nell’immaginario collettivo, la ricchezza e l’influenza saudite e degli altri paesi del CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo) sono state quasi unicamente associate alla produzione di greggio e alla sua esportazione. Non sorprende, dunque, che ci si sia spesso riferiti al regno arabo con il termine “petromonarchia” o “rentier State”. Petrolio a parte, Riyadh ha sempre esercitato un rilevante soft power, in quanto culla della civiltà islamica e custode delle città sante di Mecca e Medina, ambite mete di pellegrinaggio per milioni di musulmani in tutto il mondo. A differenza dei suoi vicini, il paese non ha mai incoraggiato il turismo, rilasciando esclusivamente visti per adempiere ai rituali del Hajj e della Umrah (rispettivamente, il pellegrinaggio maggiore e minore prescritti ai fedeli dell’Islam) e di lavoro. La famiglia reale ha da sempre promosso un connubio fra tradizione e modernità, mantenendo ottime relazioni con i paesi occidentali (in primis Stati Uniti e Regno Unito) e garantendo un tenore di vita elevato ai propri cittadini e residenti. Al tempo stesso, però, le libertà individuali e il coinvolgimento del popolo nelle decisioni politiche apparivano alquanto limitate e la vita quotidiana nel Regno era scandita rigorosamente dai dettami della Shari’a (il corpus del diritto islamico), la cui osservanza era garantita dalla Mutawa’a, (il termine colloquiale riferito alla polizia religiosa). Tuttavia, negli ultimi anni, l’Arabia Saudita sembra aver avviato un graduale ma rapido processo di cambiamento sia in politica interna che estera che, una volta terminato, potrebbe rivoluzionare gli equilibri regionali e, addirittura, globali. Il recente invito formale di entrare a far parte del gruppo BRICS ne è una eloquente dimostrazione.
Da Expo al Calcio: le mille e una iniziative della nuova visione araba
Luca Mercuri
2023-01-01
Abstract
Per decenni, nell’immaginario collettivo, la ricchezza e l’influenza saudite e degli altri paesi del CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo) sono state quasi unicamente associate alla produzione di greggio e alla sua esportazione. Non sorprende, dunque, che ci si sia spesso riferiti al regno arabo con il termine “petromonarchia” o “rentier State”. Petrolio a parte, Riyadh ha sempre esercitato un rilevante soft power, in quanto culla della civiltà islamica e custode delle città sante di Mecca e Medina, ambite mete di pellegrinaggio per milioni di musulmani in tutto il mondo. A differenza dei suoi vicini, il paese non ha mai incoraggiato il turismo, rilasciando esclusivamente visti per adempiere ai rituali del Hajj e della Umrah (rispettivamente, il pellegrinaggio maggiore e minore prescritti ai fedeli dell’Islam) e di lavoro. La famiglia reale ha da sempre promosso un connubio fra tradizione e modernità, mantenendo ottime relazioni con i paesi occidentali (in primis Stati Uniti e Regno Unito) e garantendo un tenore di vita elevato ai propri cittadini e residenti. Al tempo stesso, però, le libertà individuali e il coinvolgimento del popolo nelle decisioni politiche apparivano alquanto limitate e la vita quotidiana nel Regno era scandita rigorosamente dai dettami della Shari’a (il corpus del diritto islamico), la cui osservanza era garantita dalla Mutawa’a, (il termine colloquiale riferito alla polizia religiosa). Tuttavia, negli ultimi anni, l’Arabia Saudita sembra aver avviato un graduale ma rapido processo di cambiamento sia in politica interna che estera che, una volta terminato, potrebbe rivoluzionare gli equilibri regionali e, addirittura, globali. Il recente invito formale di entrare a far parte del gruppo BRICS ne è una eloquente dimostrazione.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.